di Fabio Massi
Tra le voci che compongono l’importo delle nostre bollette (le più altre d’Europa) alcune si riferiscono a degli “oneri impropri”, poco identificabili e quantificati il cui peso non è affatto trascurabile. Lo rivela uno studio.
Sono passati più di cinque anni dall’inizio del processo di liberalizzazione del mercato elettrico nel nostro Paese, avviato con l’emanazione del decreto legislativo n. 79 del 16 marzo 1999 in recepimento della direttiva comunitaria 96/92/Ce, ma la bolletta elettrica per le famiglie e per le piccole imprese italiane resta la più alta d’Europa. Le recenti e continue impennate del prezzo del petrolio e le prospettive di ulteriori aumenti futuri, inoltre, non sembrano far presagire un’immediata inversione di tendenza. I principali fattori che determinano gli alti costi della bolletta elettrica sono abbastanza noti ai più: oltre all’elevato prezzo del greggio, infatti, è di pubblico dominio la scarsa concorrenza nel settore dovuta soprattutto all’attività dell’ex monopolista Enel, l’insufficiente offerta di energia elettrica rispetto alla domanda e l’inadeguata efficienza di molti impianti di produzione. Meno note, invece, sono tutte quelle voci che nulla hanno a che vedere con i costi effettivi della produzione e della fornitura elettrica, ma che concorrono a mantenere alto il prezzo dell’energia sulla bolletta.
Questi “oneri impropri”, finora mai chiaramente identificati né tanto meno quantificati, sono stati l’oggetto di uno studio effettuato per conto di Adiconsum dall’Istituto di ricerca Ref, il quale ha evidenziato che si tratta di importi per nulla trascurabili e che gravano sul sistema elettrico nazionale per 4 miliardi di euro all’anno. In pratica, incidono sulla spesa annua delle famiglie italiane per più di 900 milioni di euro, con una media di 56 euro per famiglia (da un minimo di 12 a un massimo di 100 euro a seconda dei consumi), cioè il 15% dell’importo della bolletta. La voce che incide di più sulle tasche dell’utente finale è quella relativa al costo di incentivazione alle fonti rinnovabili (oltre 460 milioni di euro annui), una misura senz’altro efficace verso un utilizzo sempre più consistente dell’energia prodotta a emissioni nulle. Il meccanismo adottato, tuttavia, ha generato evidenti distorsioni, la prima delle quali riguarda la natura stessa di questo tipo di aiuto. La delibera n. 6 del 29 aprile 1992 del Comitato interministeriale prezzi – nota come Cip 6 – fissava i prezzi, maggiorati, ai quali lo Stato era tenuto da allora in poi a pagare l’elettricità prodotta dalle “fonti rinnovabili e assimilate” e i sovrapprezzi da imporre agli utenti elettrici a copertura di quelle maggiorazioni.
La definizione “assimilate”, tuttavia, ha finito per comprendere soprattutto gli scarti di raffineria petrolifera e i rifiuti non biodegradabili (gomma e plastica), perciò le bollette elettriche hanno sovvenzionato per anni anche i produttori di energia proveniente da fonti “sporche”, che oggi rappresentano circa il 76% degli incentivi Cip 6. Il costo di questo sostegno, inoltre, è andato aumentando in seguito alla decisione di cedere l’energia prodotta dagli impianti Cip 6 al mercato libero, a prezzi vantaggiosi, attraverso l’operato del Gestore della Rete di Trasmissione Nazionale (Grtn), una scelta vantaggiosa soprattutto per i consumatori che acquistano energia direttamente sul mercato, a discapito delle famiglie e delle piccole imprese. L’aumento del costo della tariffa Cip 6 in bolletta ha causato anche il rialzo del prezzo dei cosiddetti “certificati verdi” (15% in due anni), i titoli emessi dal Grtn che attestano la produzione di energia da fonti rinnovabili creati proprio per superare il vecchio criterio di incentivazione Cip 6, ma che su quest’ultimo basano il proprio prezzo.
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