Il Giappone come lo conosciamo oggi ha le sue origini in un’epoca d’oro durata oltre due secoli. Iniziata nel Seicento con un massacro.
Sera del 21 ottobre 1600. Sul campo di battaglia di Sekigahara, Giappone Centrale, restano i cadaveri di migliaia di guerrieri che si sono affrontati in un lungo e sanguinosissimo combattimento destinato a cambiare la storia del Sol Levante. I vincitori sono i samurai della “coalizione orientale”, un gruppo di signori feudali (i daimyo) capeggiati da Tokugawa Ieyasu. Tre anni più tardi Ieyasu si fece proclamare shogun, signore supremo di tutto il Paese, dall’imperatore, che dovette attendere 250 anni per riacquistare un ruolo di rilievo. È l’inizio dell’era Tokugawa, l’età d’oro del Giappone tradizionale: oltre due secoli di splendido isolamento, dal 1603 a 1868, che fecero del Sol Levante quello che tutti immaginiamo quando diciamo “Giappone”. Per comprendere la civiltà di questo Paese bisogna scavare nel passato remoto dominato dai samurai.
Sistema feudale. Ieyasu, un militare con doti di comando e intelligenza strategica eccezionali, fu il primo a imporre la sua autorità e a sottomettere tutti i daimyo. Ma non unificò il Paese come se fosse un impero: lo lasciò invece diviso tra un folto numero di signori feudali, ognuno con la propria autonomia territoriale: preferiva esercitare il suo dominio attraverso la minaccia della superiorità militare e un capillare sistema di controlli. Proprio a questo scopo aveva trasferito la sede del governo a Edo (l’odierna Tokyo). E, sempre per assicurarsi il controllo sui feudatari, stabilì una gerarchia basata sui vincoli di fedeltà tra questi e la propria famiglia.
Al primo posto c’erano i più fidati, gli han (clan) imparentati con i Tokugawa, poi seguivano i daimyo alleati nella battaglia di Sekigahara e divenuti vassalli ereditari (fudai). I meno affidabili, invece, erano gli sconfitti e sottomessi, i “signori esterni” (tozama), ai quali fu persino impedito di possedere territori confinanti tra loro: andavano fisicamente isolati per ostacolare ogni tentativo di coalizione contro il governo centrale. Era nato il bakuhan, il “feudalesimo centralizzato” fondato sull’equilibrio di potere tra l’autorità centrale dello shogun e gli oltre duecento signori locali.
Per stare più sicuri gli shogun imposero a tutti i feudatari, a prescindere dal rango, di avere una residenza nella capitale governativa, in cui vivere per un certo periodo dell’anno mentre, nei mesi restanti, erano costretti a lasciare in ostaggio i propri familiari, come pegno di lealtà allo shogun. Insomma, la fedeltà fino al sacrificio dei giapponesi ha radici lontane.
Comunicazione capillare. «Durante il periodo Tokugawa si svilupparono importanti arterie viarie, come la strada che collegava Edo a Kyoto, la capitale precedente. La creazione di queste vie di comunicazione fu al tempo stesso causa ed effetto del capillare controllo del territorio da parte dello shogunato», spiega Noemi Lanna, docente di Storia e istituzioni del Giappone all’Università L’Orientale di Napoli. «Causa, perché attraverso le stazioni di posta gli ufficiali del governo militare degli shogun (il bakufu) monitoravano gli spostamenti della popolazione, ed effetto perché il suo sviluppo fu favorito dall’obbligo della “residenza alternata”. Questa lungimiranza (che non era limitata al controllo, ma teneva conto anche delle necessità di sviluppo), fu un’eredità materiale e un presupposto della successiva modernizzazione del Giappone». Anche le città tra il XVII e XVIII secolo conobbero una crescita straordinaria in termini di popolazione ed estensione. A cominciare dalla capitale.
Gli splendori di Edo. La concentrazione forzata nella capitale dei daimyo, dei loro familiari, dei servitori e dei vassalli diede un formidabile impulso ai consumi e alle attività commerciali. Edo divenne il maggiore centro economico e culturale del Paese, una metropoli con oltre un milione di abitanti. «Nessuno storico del Giappone può ignorare che furono le condizioni dell’epoca Tokugawa a plasmare il processo di modernizzazione seguito al 1868. Ma è altrettanto vero che l’epoca Tokugawa non si può spiegare a prescindere dalla storia di Edo», sintetizza Rosa Caroli, docente di Storia e istituzioni dell’Asia all’Università Ca’ Foscari di Venezia.
I mercanti di Edo erano ricchissimi. Nonostante fossero all’ultimo posto nella riorganizzazione gerarchica della società imposta dallo shogunato (ispirata al modello cinese), furono loro, i chonin (le “persone della città”) a dar vita ad alcuni dei tratti tipici della cultura giapponese. Esclusi dal potere, si dedicarono agli aspetti più piacevoli della vita: nacque così l’ideale effimero del “mondo fluttuante” (ukiyo), che ispirò espressioni artistiche e culturali che ancora oggi rappresentano gli elementi più riconoscibili della cultura giapponese. Come le stampe ukiyoe (scene di vita quotidiana e antenate dei manga), le brevi poesie haiku, il popolare teatro kabuki.
Il codice del samurai. Se i mercanti costituivano la parte più edonistica e gaudente della società Tokugawa, i samurai ne erano il volto severo e autoritario. Detentori assoluti del potere, occupavano il gradino più alto della scala sociale. I lunghi periodi di pace li trasformarono in un’élite colta di burocrati e funzionari, ma i samurai continuarono a girare armati di katana (la spada lunga) e a vivere seguendo i principi etici dell’antico codice del bushido (“la via del guerriero”).
La condotta morale dei samurai era un esempio: esaltava valori come lealtà, fedeltà, pietà filiale, dovere, onore (da difendere con il suicidio rituale, il seppuku, in caso di offesa o colpa grave). Ma anche il sacrificio degli interessi personali a vantaggio del benessere comune. Questi segni dell’epoca samuraica sono in parte arrivati fino a noi. Alla base della vita di un samurai c’era infatti il rapporto di totale fedeltà al proprio signore, lo stesso dei kamikaze della Seconda guerra mondiale, o dei dipendenti delle grandi aziende nipponiche. E questo sia che fosse lo shogun in persona sia che fosse un daimyo locale. Qualora questo legame si fosse interrotto, per l’estinzione di un casato feudale o per la caduta in disgrazia del proprio capo, la condizione del samurai si sarebbe rovesciata: da nobile guerriero a ronin, “uomo onda” senza padrone. Nel periodo Tokugawa bande di ronin vagavano per tutto il Giappone intimidendo e rapinando i contadini mentre erano in cerca di qualche signore disposto a pagare i loro servigi.
Ma c’era anche chi si univa a gruppi di mercanti, artigiani e contadini e difendeva le piccole comunità dai soprusi dei briganti. Questa sorta di polizia privata potrebbe essere all’origine della yakuza, la moderna mafia giapponese, i cui affiliati hanno in comune con l’antica casta guerriera il senso di appartenenza al clan e la fedeltà fino alla morte verso il proprio capo.
Paese chiuso? Se a lungo la civiltà giapponese è rimasta un mistero per l’Occidente si deve a una scelta precisa dei Tokugawa: la politica del “Paese chiuso” (sakoku). Dietro a questa chiusura c’era il timore che una religione straniera come il cristianesimo – diffuso in Giappone dal 1543, con l’arrivo dei portoghesi – potesse sovvertire l’organizzazione politica e sociale del Paese. Tra il 1639 e il 1641 tutti i missionari e gli stranieri furono espulsi, con la sola eccezione dei mercanti olandesi e cinesi, confinati nella baia di Nagasaki. Ai giapponesi fu proibito di viaggiare all’estero.
«In realtà, la chiusura non riguardava il governo e la classe dirigente, cui continuarono ad arrivare notizie e informazioni di ogni tipo dal mondo esterno (culturale, scientifico, tecnologico)», spiega Valdo Ferretti, docente di Storia e istituzioni dell’Asia alla Sapienza di Roma. «Questa possibilità fu invece negata alla quasi totalità della popolazione. Perciò i giapponesi si abituarono a una visione del mondo ristretta a loro stessi. A fine ’800 questo secolare isolamento finì. Ma nella società nipponica, anche in quella di oggi, si è conservato questo senso esclusivo di identità nazionale. Credo sia questa l’eredità più incisiva del periodo Tokugawa». Un’eredità con un risvolto nazionalista, i cui eccessi sfociarono nel colonialismo del ’900 e nel disastro della Seconda guerra mondiale.
Era Meiji: il Giappone si occidentalizza
La politica di chiusura al mondo esterno portata avanti per due secoli dagli shogun Tokugawa fu spazzata via a metà del XIX secolo con la firma, considerata disonorevole, dei cosiddetti “Trattati ineguali” imposti dalle potenze mondiali a fini commerciali. L’onta fu lavata da un gruppo di feudatari vicini alla corte imperiale che rovesciarono il governo Tokugawa. Il 3 gennaio 1868, dopo quasi sette secoli di dominio degli shogun, il potere fu riconsegnato nelle mani dell’imperatore: aveva inizio l’epoca Meiji (1868-1912).
Apertura a ovest. I nuovi oligarchi compresero che per dare al Giappone il giusto peso nello scacchiere internazionale era necessario, come si disse allora, “arricchire il Paese e rafforzare l’esercito”. Fu inaugurata una politica di apertura verso il commercio, la scienza e il sapere occidentali. Si decise di adottare una costituzione simile a quella prussiana, furono aboliti i diritti feudali, i daimyo furono convertiti in governatori, mentre al posto dei samurai (sempre più emarginati) si formò un esercito moderno basato sulla leva obbligatoria. Il rapido sviluppo industriale richiedeva materie prime, e così il Paese divenne una potenza coloniale di livello internazionale, facendo capire al mondo di che cosa fossero capaci i giapponesi.
Ainu, gli aborigeni perseguitati
Alti, con la barba folta, capelli ondulati e occhi grandi, non sembrano giapponesi. Eppure forse furono tra i primi abitanti dell’arcipelago nipponico. Sono gli Ainu (“umani”), un popolo di cacciatori e raccoglitori arrivati dalla Siberia prima dell’ultima glaciazione, fra 20mila e 12mila anni fa, e la cui cultura si sviluppò tra il 1400 e il 1700. Sottomessi. Da sempre oppressi dai giapponesi (di cui sono in parte gli antenati), nel 1789, dopo la battaglia di Kunashiri Menashi, furono sottomessi e confinati in villaggi nell’isola settentrionale di Hokkaido. Oggi gli Ainu non sono più di 17mila e nel 2008 ottennero il riconoscimento di minoranza etnica con una propria lingua, cultura e religione.