A tutela dei frantoi nostrani

di Fabio Massi

Il fenomeno della contraffazione dell’olio d’oliva italiano ha raggiunto livelli da allarme rosso: quattro bottiglie di olio extravergine su cinque commercializzate nel nostro Paese – secondo un’indagine della Coldiretti – contengono miscele di diversa origine, per le quali è praticamente illeggibile la provenienza delle olive impiegate, perlopiù giunte dall’estero nonostante il nome dell’olio tipicamente italiano. Eppure, nel mondo l’Italia è il secondo produttore e il primo consumatore di olio d’oliva.

La difesa del Made in Italy passa anche – o soprattutto – per uno dei simboli della nostra tradizione agroalimentare: l’olio d’oliva. La diffusione di furbizie e pratiche ai limiti della scorrettezza che danneggiano questo prezioso prodotto ha raggiunto livelli da allarme rosso: quattro bottiglie di olio extravergine su cinque commercializzate nel nostro Paese – secondo un’indagine di Coldiretti – contengono miscele di diversa origine, per le quali è quasi impossibile stabilire l’esatta provenienza delle olive impiegate, perlopiù giunte dall’estero nonostante il nome del prodotto tipicamente italiano. Se aggiungiamo, poi, che diversi marchi storici italiani sono da tempo nelle mani di multinazionali straniere, allora siamo di fronte a uno scenario non proprio rassicurante per il nostro “oro giallo”.
Nel 2011 la quantità di olio d’oliva straniero immesso sul mercato italiano ha fatto segnare il record storico di 584.000 tonnellate, superando la produzione nazionale che è calata fino alle 483.000 tonnellate (-6% sul 2010). Il nostro Paese produce circa un quinto dell’olio d’oliva comunitario che – secondo le stime effettuate dal Consiglio oleicolo internazionale (Coi) per la campagna 2011/2012 – si è attestato sui 2,18 milioni di tonnellate, lievemente inferiore rispetto alla campagna precedente (-1,1%). Sempre, in ambito europeo, la Spagna è il maggior produttore con una quota del 61,8% sul totale, mentre la Grecia segue l’Italia al terzo posto con il 14,2%.
In termini di vendite della gdo nel nostro Paese – secondo le elaborazioni di Unaprol su dati Iri-Infoscan – il 2011 ha confermato sostanzialmente i numeri dell’anno precedente (-0,1%) con circa 216 milioni di litri di olio d’oliva commercializzati, per un valore di 846 milioni di euro. Il 73% (157,4 milioni di litri) è costituito dall’extravergine, il 14% dall’olio d’oliva, l’11% dal “100% italiano”, il resto dagli oli certificati. Le vendite si sono concentrate soprattutto al Centro e in Sardegna dove, però, si è registrata una contrazione del 4% in volumi e del 5% in valore rispetto al 2010.

I consumi di olio d’oliva sul mercato interno, perciò, tutto sommato tengono, mentre la produzione cala e aumenta la necessità di importare prodotto straniero. E il Made in Italy?
«Alcuni dei grandi nomi del comparto oleario, essendo finiti in mano agli spagnoli, non hanno interesse a tutelare il prodotto italiano – afferma Gianfranco Desantis, responsabile marketing e comunicazione di Olearia Desantis – e oggi vendono solo ed esclusivamente olio spagnolo. Tutto ciò deve far riflettere: è segno che qualcosa in questi anni non ha funzionato, che in Italia il mondo dell’olio è stato abbandonato a se stesso, essendo mancata una regia autorevole in grado di operare per il bene del settore, al punto da non far funzionare più una meravigliosa macchina che un tempo era l’orgoglio dell’Italia. Bisogna anche ricordare, però, che i commercianti e i confezionatori italiani devono importare perché hanno bisogno di moltissimo olio».
Come abbiamo visto dai dati delle vendite, il consumatore italiano continua ad acquistare il prodotto che trova sugli scaffali del supermercato, a prescindere se l’origine è nazionale, comunitaria o extracomunitaria, evidentemente è il prezzo che fa la differenza. O c’è dell’altro?
«Soltanto il 30% dell’olio prodotto in Italia è di ottima o buona qualità – spiega Amalia Menna Pantaleo, general manager di Nicola Pantaleo – e spesso si tratta di oli che presentano caratteristiche organolettiche che il consumatore non apprezza, come l’eccessivo amaro e piccante. Ed è estremamente difficile, direi impossibile, reperire nella produzione italiana oli equilibrati dal punto di vista organolettico in quantità sufficiente. Anche da qui la necessità di utilizzare oli extra ugualmente ottimi ma provenienti da Paesi come Grecia, Spagna, Tunisia, che sapientemente miscelati con i nostri extra li rendono armonici ed equilibrati e quindi adatti al gusto dei consumatori, raggiungendo solo in questo modo le quantità necessarie, e mettendo i marchi in grado anche di garantire ottime qualità e, cosa molto importante, anche costanti».

All’olio d’oliva tipicamente made in Italy non manca certo la qualità, e a ricordarcelo c’è il dato dei riconoscimenti dop e igp da parte dell’Unione europea: dei 116 oli di qualità quasi il 40% (43) appartiene al nostro Paese, mentre figurano molto più distanti grandi realtà dell’olivicoltura come Grecia e Spagna. La produzione nazionale di oli dop e igp, tuttavia, rimane ancora a livelli piuttosto contenuti e, secondo i dati Ismea-Qualivita, nel 2010 ha raggiunto le 10.500 tonnellate (+0,7% rispetto all’anno precedente), pari a circa il 2% della produzione totale di olio extravergine.
«L’assetto strategico del comparto oleario italiano – dichiara Paolo Coppini, contitolare di Coppini arte olearia – va riformato partendo dai fondamentali, dalle sue radici. Da una recente ricerca di mercato è emerso che l’olio extravergine d’oliva italiano certificato e il Parmigiano Reggiano dop rappresentano l’Italia alimentare nell’immaginario del consumatore estero. Due prodotti, di fatto, ambasciatori della nostra cultura alimentare nel mondo. Buona parte dei marchi storici del comparto oleario distribuiti in gdo sono prodotti ottenuti da miscele di oli comunitari. Ergo bisogna ripensare a una strategia mirata per promuovere il prodotto italiano».
Recentemente l’Unione europea è intervenuta per difendere la qualità degli oli extravergini d’oliva da comportamenti fraudolenti come l’aggiunta di oli di scarso valore qualitativo (oli lampanti o deodorati) emanando il regolamento comunitario n. 61/2011. Tale norma, entrata in vigore il 1° aprile 2011, fissa a 75 mg/kg il contenuto massimo consentito di alchil esteri in un extravergine. Gli alchil esteri (esteri metilici ed etilici degli acidi grassi) costituiscono infatti un parametro utile per determinare la qualità del prodotto: a una maggiore presenza di questi composti chimici corrisponde una degradazione delle olive, causata magari da una lunga conservazione o da un cattivo stoccaggio della materia prima.

Il legislatore italiano, però, ha considerato il limite imposto dall’Ue come insufficiente e, dopo diversi passaggi, alcuni articoli del disegno di legge 3211 sono stati stralciati e inseriti nel cosiddetto “decreto sviluppo” (83/2012) approvato lo scorso agosto. Secondo la nuova normativa «al fine di prevenire frodi nel settore degli oli di oliva e di assicurare la corretta informazione dei consumatori, in fase di controllo gli oli di oliva extravergini che sono etichettati con la dicitura “Italia” o “italiano”, o che comunque evocano un’origine italiana, sono considerati conformi alla categoria dichiarata quando presentano un contenuto in metil esteri degli acidi grassi ed etil esteri degli acidi grassi minore o uguale a 30 mg/kg» (art. 43 comma 1-bis).
«Era ora che venisse introdotta una norma per fare in modo che solo l’eccellenza dei prodotti italiani andasse a finire in bottiglia. Nel nostro codice etico interno e nella nostra certificazione Qas – afferma Pompeo Farchioni, presidente di Farchioni Olii – questa regola è per noi obbligatoria già da cinque anni. Si tratta di una disposizione su cui abbiamo spinto molto e facciamo i complimenti anche a Coldiretti e Confagricoltura che sono riuscite a farla introdurre, ancora purtroppo non a livello comunitario».
Il superamento del limite degli alchil esteri non comporta una sanzione diretta nei confronti dell’azienda inadempiente, ma l’avvio automatico di un piano straordinario di sorveglianza dell’impresa da parte delle autorità nazionali competenti per i controlli.
«Di sicuro la conversione in legge del decreto 83/2012 – dichiara Vincenzo Mataluni, amministratore delegato degli Oleifici Mataluni Olio Dante – rappresenta uno strumento efficace per prevenire le frodi. Tuttavia, questa misura va accompagnata da un’adeguata campagna di comunicazione al consumatore, in modo da differenziare e valorizzare un olio extravergine d’oliva italiano con un contenuto massimo di 30 mg/kg di alchil esteri rispetto a un altro che ne contiene fino a 75 mg/kg. Manca un’azione mirata del Governo sulla comunicazione istituzionale».

Non tutte le aziende, però, hanno accolto di buon grado l’introduzione della nuova normativa, ritenuta non soltanto poco efficace ma addirittura dannosa per il settore.
«Le regole vanno cambiate prima che inizi la gara, cioè prima del raccolto – spiega Sabino Basso, amministratore unico di Olio Basso – ma nel caso degli alchil esteri sono state modificate durante la gara, ad agosto. Il limite di 30 mg/kg è un parametro solo italiano che danneggerà soprattutto produttori e frantoiani, i quali quando si troveranno con ingenti quantità di olio extravergine d’oliva italiano di alta qualità (sia dal punto di vista chimico che organolettico), ma con alchil esteri magari a 31 mg/kg, saranno costretti a declassare o a svendere il prodotto, pioverà sul bagnato. La misura utile da inserire, invece, è quella di introdurre e sostenere il dialogo tra Coldiretti e confezionatori».
Lo spartiacque dei 30 mg/kg in effetti sembra preoccupare diversi produttori, convinti che questa non sia la strada giusta da seguire per valorizzare e difendere l’olio d’oliva made in Italy.
«L’approvazione di questa misura nazionale – afferma Paolo Coppini – è, di fatto, in contrasto con la regolamentazione comunitaria che prevede ancora un limite di 75 mg/kg, quindi c’è anche il rischio che l’Italia sia sanzionata dall’Ue per questo. Inoltre, ci sono produzioni Italiane, tipo oli dop del Garda, che quest’anno hanno presentato valori di 35-38 mg/kg, ma ovviamente non significa che non siano oli italiani. Le associazioni di settore non sono molto d’accordo con questo provvedimento e oggettivamente non mi sembra una misura efficace».
Il decreto sugli alchil esteri non soddisfa neanche Amalia Menna Pantaleo: «Ritengo che sia una legge fatta male, portata avanti senza basi scientifiche, e da persone che non sono competenti della reale situazione italiana, e fra l’altro in barba all’Unione europea. Come conseguenza all’introduzione di tale norma, una grande quantità di oli italiani che prima potevano essere commercializzati come extravergini vedranno ridurre il loro valore di mercato dovendo essere considerati oli di categoria inferiore. Le leggi devono essere uguali per tutti almeno nell’Unione europea. Così invece non facciamo che perdere in competitività rispetto agli altri Paesi, che non faranno che avvantaggiarsi ulteriormente»…

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