Un dettagliato rapporto Ismea tira un bilancio della pesca nel Mediterraneo, toccando temi importanti, come l’ambiente e la tutela della sicurezza, senza dimenticare i flussi produttivi.
Il settore della pesca e dell’acquacoltura ricopre un ruolo di primaria importanza per tutti i Paesi che si affacciano sul Mar Mediterraneo, soprattutto in termini economici ma anche ambientali, sociali e sanitari, perciò il tema della gestione e della regolamentazione di queste attività attraverso il coinvolgimento attivo di tutti gli operatori dell’area assume una valenza quanto mai vitale. Con l’obiettivo di ampliare la base conoscitiva su cui articolare il confronto tra i Paesi mediterranei sulla necessità di adottare un sistema di normative comuni e condivise, l’Ismea (Istituto di servizi per il mercato agricolo alimentare) ha realizzato – su richiesta del Ministero delle Politiche agricole e forestali – un bilancio socio-economico e ambientale del settore ittico in collaborazione con l’Osservatorio permanente sul sistema agroalimentare dei Paesi del Mediterraneo.
Il rapporto, intitolato “Verso un sistema di regole comuni per la pesca nel Bacino del Mediterraneo”, oltre a tracciare un profilo dello scenario economico e sociale dell’area, affronta il tema della gestione delle risorse ittiche, sottolineando l’importanza della tutela degli ecosistemi marini anche per la sicurezza e la qualità dei prodotti. Non è semplice dare un’interpretazione univoca del settore della pesca dell’area in quanto esiste una netta dicotomia in termini di livelli di benessere socio-economico e di sviluppo tra i sette Paesi mediterranei appartenenti all’Unione europea (Puem) e i 13 Paesi terzi mediterranei (Ptm). I primi, infatti, contribuiscono a più dell’84% del prodotto interno lordo mediterraneo, nonostante contino meno della metà della popolazione dell’area. Tale squilibrio si manifesta anche a livello di distribuzione del Pil nei differenti settori economici: se tra i Puem l’agricoltura contribuisce mediamente per il 2,9% alla formazione del Pil, tra i Ptm la quota sale all’11,7%. Per ciò che concerne l’incidenza media del valore aggiunto dell’attività di pesca sul settore agricolo, tuttavia, le differenze tra i due gruppi di Paesi si assottigliano: quella dei Ptm è pari al 6,7% (con una punta massima del 27,9% del Marocco), mentre quella dei Puem è del 5,7% (con il picco della Spagna del 12,5%). Secondo i dati della Fao la produzione ittica complessiva dei Paesi mediterranei tra il 1987 e il 2002 ha fatto registrare una crescita costante, passando da 1,5 a 2,2 milioni di tonnellate, pari all’1,7% del totale mondiale.
Questa tendenza si deve maggiormente allo sviluppo dell’acquacoltura soprattutto tra i Ptm (Marocco, Turchia e Cipro in modo particolare). Se scorporiamo infatti la produzione derivante dalle attività della pesca da quella dell’acquacoltura si nota che la prima, nel periodo considerato, mostra poche variazioni (circa 1,3 milioni di tonnellate) con una contrazione del livello delle catture in mare parzialmente compensata dall’incremento delle catture nelle acque interne, mentre l’acquacoltura è passata dalle 251.000 tonnellate del 1987 alle oltre 880.000 del 2002, con un netto incremento dell’incidenza dei suoi prodotti sulla produzione ittica complessiva: dal 17% a poco meno del 40%. Prendendo in esame l’andamento della catture si evidenzia che quantitativamente dal 1970 al 1994 esse sono aumentate in maniera costante raggiungendo poco meno di 1,2 milioni di tonnellate, per poi scendere fin sotto le 940.000 nel 2003 (-18%). La flessione degli ultimi anni ha interessato maggiormente i Puem (-22% dal 1997), in seguito al ridimensionamento dello sforzo di pesca imposto dalla normativa comunitaria e da quella in vigore nei singoli Paesi; tra questi la Spagna dal 2000 al 2003 ha mostrato la contrazione più significativa (-34,3%), seguita dalla Slovenia (-33,3%) e da Cipro (-21,9%). L’area di pesca più battuta nel bacino del Mediterraneo nel 2003 è stata quella delle Baleari in cui si è concentrato il 27% delle catture complessive, zona dove operano soprattutto le flotte di Spagna, Marocco e Algeria che si sono assicurate circa la metà delle sardine catturate in tutto il Mediterraneo.
Il 15,6% del pescato è avvenuto nell’Adriatico – in cui i pescherecci italiani hanno messo insieme il 38% della produzione complessiva delle alici – il 15% nello Ionio, il 12,3% nell’area della Sardegna e l’11,3% in quella dell’Egeo. In termini di quantità pescate, l’Italia è al primo posto con un’incidenza del 29,1% (circa 273.000 tonnellate) sul totale delle catture nel Mediterraneo, seguita dall’Algeria con il 15,1%, dalla Spagna con il 9,8%, dalla Tunisia con il 9,5% e dalla Grecia con il 9,1%. Oltre ai Paesi menzionati, anche flotte provenienti da altre nazioni operano nel Mediterraneo e tra queste vale la pena segnalare il Giappone, che nel 2001 ha dichiarato una cattura di 188.000 tonnellate di tonni rossi con una ventina di imbarcazioni. La coesistenza di così tanti interessi economici, tuttavia, rappresenta una seria minaccia per la conservazione degli ecosistemi marini e quindi per il futuro delle stesse risorse ittiche, soprattutto in assenza di una politica ad hoc condivisa da tutti gli operatori della filiera dell’area mediterranea. «L’unica possibilità per invertire tale tendenza – afferma Giampaolo Buonfiglio, presidente nazionale dell’Associazione generale delle cooperative italiane/settore agro-ittico alimentare (Agci Agrital) – è l’attivazione di una sede multilaterale istituzionale in cui le politiche di conservazione, sulla base di dati scientifici attendibili, possano essere sviluppate contemperando nella misura del possibile gli interessi economici, e comunque tenendo nella adeguata considerazione gli impatti sociali e occupazionali.
La sola sede ad oggi individuabile che ha le carte in regola per svolgere questo compito è la Commissione generale per la pesca in Mediterraneo (Cgpm), un organismo nato in ambito Fao nel cui direttivo siedono rappresentanti dei Governi dei Paesi costieri del bacino e che, a certe condizioni, può assumere decisioni vincolanti per tutti gli aderenti, ma la sua piena attivazione sta compiendosi con notevole lentezza». Lo sviluppo sostenibile degli ecosistemi marini non può essere perseguito senza l’adozione di strumenti e misure efficaci in grado di incrementare le risorse ittiche, come l’istituzione di aree marine protette e zone di riposo biologico, la lotta alla pesca illegale, la gestione integrata delle fasce costiere, il contingentamento delle giornate di pesca, la lotta all’inquinamento.
Quest’ultimo aspetto, secondo Ettore Ianì, presidente dell’Associazione nazionale delle cooperative della pesca (Lega Pesca) e del Consorzio di promozione dei prodotti ittici (Uniprom), troppo spesso rischia di essere sottovalutato: «La Convenzione di Barcellona per la protezione del Mediterraneo (1976) aveva fra gli obiettivi quello di ridurre del 50% entro il 2005 le emissioni dei composti organici persistenti (Pop) per giungere a una loro completa eliminazione nel 2010, ma un recente studio dell’Università di Siena e del Wwf ha rivelato la presenza nel Mediterraneo del cosiddetto “pescespada al Ddt”. È solo un esempio: secondo stime prudenziali dell’Agenzia spaziale europea (Esa), nel Mediterraneo si riversano 100.000 tonnellate di petrolio greggio; i dati del Programma ambientale dell’Onu (Unep) affermano che ogni anno vengono scaricate nel Mediterraneo 55 tonnellate di lindame, un pesticida cancerogeno vietato sin dagli anni ’90; tra le conseguenze dei recenti bombardamenti israeliani sulla centrale termonucleare a sud di Beirut, nel Mediterraneo si è riversata una quantità di nafta paragonabile solo a quella che si era rovesciata in mare nel 1989 davanti all’Alaska; una recente ricerca statunitense ha calcolato che la quantità della massa di plastica che invade il nostro mare è sei volte quella del plancton. A minacciare l’integrità dell’ecosistema mediterraneo ci sono anche altri fenomeni, come l’antropizzazione delle coste, l’aumento dell’acidità delle acque causata dai gas serra, il surriscaldamento dei mari, tutti segnali chiari e drammatici del fatto che il problema inquinamento non può più essere rimandato e deve entrare come parte integrante dell’agenda politica di tutti i Paesi che si affacciano sul nostro mare».
Per la maggior parte di questi, nonostante l’eterogeneità culturale e le differenze socio-economiche, la pesca è essenzialmente un’attività di tipo artigianale, a forte impiego di manodopera, del tutto diversa da quella praticata in altre aree come quella del Nord Europa, caratterizzata da una produttività media molto maggiore. La flotta mediterranea risulta composta da poco meno di 90.000 pescherecci (pari al 2,7% del totale mondiale), di cui 48.400 dei Puem e 41.500 dei Ptm. Il maggior numero di battelli è detenuto da Grecia e Italia, rispettivamente con 20.500 e 18.800 unità, che insieme costituiscono quasi il 44% della quantità complessiva attiva nell’area. Tra i Paesi mediterranei extraeuropei spiccano la Croazia e la Tunisia, le quali possono contare rispettivamente su 13.800 e 12.600 pescherecci, poco meno del 30% del totale. In termini di ripartizione della flotta mediterranea per segmenti produttivi non emergono rilevanti differenze: oltre l’80% dei pescherecci svolge attività sottocosta mediante l’alternanza di più strumenti, il 10-15% pratica la pesca a strascico (il 60% si concentra tra i Puem, principalmente in Spagna e Italia) e il 5% opera con attrezzi pelagici (soprattutto Algeria, Marocco e Tunisia). Rispetto alla popolazione attiva in agricoltura tra tutti i Paesi del bacino del Mediterraneo soltanto lo 0,6% è occupato nella pesca, ma con discrete differenze tra i singoli Stati: si va dallo 0,8% e dall’1,4% di Italia e Francia al 3% di Spagna e Grecia, passando per il 6,3% del Libano, per il 7,4% di Cipro fino ad arrivare al 70% di Malta.
«La consistente perdita di posti di lavoro registrata negli ultimi cinque anni (oltre 9.000 occupati in meno) e le politiche comunitarie orientate a un’ulteriore riduzione del settore – afferma Giampaolo Buonfiglio – non determinano condizioni favorevoli al ricambio generazionale negli equipaggi, già reso difficile dalle caratteristiche oggettivamente dure del lavoro a bordo. La riqualificazione professionale, l’attivazione di reali processi di riconversione e misure di incentivazione verso i giovani sono oggi strumenti sempre più urgenti, destinati però a fallire se non si metterà fine alla ostinata, quanto approssimativa, politica di smantellamento delle flotte, puntando su modelli di gestione sostenibili che mantengano in vita imprese e occupazione». Uno dei fattori che più ostacola il processo di cambiamento e di modernizzazione delle imprese del comparto ittico è sicuramente l’aumento del costo del gasolio. «Ad oggi la spesa per carburante da pesca – dichiara Ettore Ianì – incide per oltre il 40% sul totale dei costi di produzione. La frammentarietà dei punti di sbarco, la rigidità del sistema di commercializzazione del prodotto ittico e la struttura artigianale dell’impresa non consentono di recuperare l’aumento dei costi di produzione sul prezzo di vendita. Al contrario, secondo i dati dell’Unione europea, i prezzi di vendita medi alla produzione avrebbero subito nell’ultimo decennio una stagnazione e, in alcuni casi, addirittura una flessione. Per incoraggiare il cambiamento è indispensabile puntare sulla valorizzazione della piccola pesca, soprattutto attraverso l’istituzione di consorzi che possano aiutare le piccole imprese artigianali a competere nel mercato globalizzato».
Nel 2002 il consumo di prodotti ittici in tutti i Paesi del Mediterraneo ha superato gli 8 milioni di tonnellate (il 7,3% del totale mondiale), una quantità più che doppia rispetto al 1976. La ripartizione dei consumi all’interno dell’area vede la netta prevalenza dei Puem con 5,6 milioni di tonnellate (circa il 70% del totale), con Spagna e Francia che assorbono quasi il 70%, mentre i Ptm hanno consumato soltanto 2,4 milioni di tonnellate di prodotti ittici, anche se la tendenza della domanda nel corso degli anni è in grande crescita (+300% dal 1976). Secondo i dati della Fao, nel 2002 il consumo pro capite di pesce nei Paesi mediterranei è stato di 16,2 kg, perfettamente in linea con la media mondiale, ma il dato scorporato nei due gruppi di nazioni evidenzia un marcato divario tra realtà sviluppate e quelle in via di sviluppo, anche se tutti hanno mostrato un notevole incremento nel tempo. Nell’anno analizzato ogni cittadino dei Puem ha consumato 30,7 kg (17,2 kg nel 1976, +79%), mentre gli abitanti dei Ptm non sono andati oltre gli 8,3 kg ciascuno (4,3 kg nel 1976, +95%). Entrando ancora più nel dettaglio, è interessante notare che tutti i Paesi comunitari – ad eccezione della Slovenia con 7,7 kg – hanno un livello di consumo pro capite superiore a 20 kg, cioè ampiamente sopra la media mediterranea e mondiale. Tra questi spiccano i valori di Malta e della Spagna: rispettivamente 50,2 e 47,5 kg. Per il gruppo dei Ptm, invece, i numeri sono più eterogenei e si va dai 22 kg di Israele a meno di 1 kg della Palestina, dai 15 kg dell’Egitto ai 2 kg di Serbia e Montenegro, dai 12,2 kg del Libano ai 2,7 kg della Siria. La crescita del consumo di pesce testimoniata da questi numeri assume un valore non da poco se si considera che negli ultimi anni – tra i consumatori ma anche tra le istituzioni e tutti gli operatori della filiera agroalimentare – c’è stata una crescente crisi di sicurezza causata da un significativo aumento di malattie originate da prodotti alimentari contaminati (basti pensare alla Bse, alla presenza di diossina nelle carni avicole o all’influenza aviaria).
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