La nostra filiera saccarifera è in crisi a causa delle nuove abitudini alimentari e delle campagne allarmistiche. Per i produttori il futuro è nel premium e nel made in Italy.
La riforma del mercato dello zucchero introdotta nel 2006 dall’Unione europea per razionalizzare il settore saccarifero e per difendere i pochi grandi produttori continentali sui mercati mondiali è ormai giunta al capolinea. Dal 1° ottobre 2017, infatti, gli Stati membri non dovranno più sottostare al sistema delle quote di produzione, perciò le imprese produttrici potranno aumentare i quantitativi e le esportazioni di zucchero, in uno scenario internazionale altamente competitivo.
Se nei dieci anni di riforma il settore saccarifero europeo nel suo complesso ha evidenziato una cospicua riorganizzazione con il taglio degli stabilimenti da 192 a 109 e la perdita di circa 20.000 posti di lavoro, il comparto italiano è stato letteralmente stravolto: nel 2006 gli ettari di campi piantati a barbabietola erano 233.000 e dai 19 stabilimenti operativi uscivano 1,4 milioni di tonnellate di zucchero, pari al 17% della produzione continentale e al 75% del fabbisogno nazionale, mentre nel 2016 la superficie coltivata si è ridotta a 33.500 ettari e gli impianti operativi a soltanto due, per una produzione di circa 260.000 tonnellate, oltre l’80% in meno rispetto a un decennio fa.
Su un consumo nazionale che si aggira su 1,6 milioni di tonnellate (circa 27 chilogrammi pro capite) oggi il 20% è soddisfatto dalla produzione italiana, mentre l’80% viene importato principalmente da Paesi Ue come Francia e Germania, che approvvigionano insieme circa il 40% del totale consumato.
«Per affrontare le sfide derivanti da un mercato sempre più deregolamentato e l’imminente fine delle quote zucchero – spiega Patrick Pagani, direttore di Unionzucchero – la filiera bieticolo-saccarifera italiana ha lavorato per aumentare la competitività nelle fabbriche e la produttività agricola nel campo con quasi 200 milioni di euro di investimenti negli ultimi anni. I risultati si stanno vedendo con gli impianti di produzione, che hanno raggiunto livelli di efficienza energetica tra i migliori in Europa. Sotto il profilo agricolo, oggi il 30% dei bieticoltori del Settentrione è allineato alla media delle rese agricole dei colleghi del Nord Europa».
Il settore saccarifero italiano, perciò, non ha abbandonato la convinzione di poter ancora svolgere un ruolo importante, almeno sul mercato nazionale, in cui una maggiore circolazione di zucchero made in Italy gioverebbe non soltanto alle imprese produttrici.
«Nel contesto in cui l’80% dei circa 600.000 prodotti alimentari realizzati a livello industriale, disponibili presso la Gdo, contiene zucchero aggiunto – continua Patrick Pagani – avere una produzione di zucchero italiano sostenibile dal punto di vista ambientale, di qualità, che dà remunerazione al territorio, è un valore chiave per il Paese e permette di mantenere un approvvigionamento in prossimità alle tante piccole e medie imprese dell’agroalimentare nazionale. Non va dimenticato, poi, come l’indotto generato da un impianto saccarifero in Italia sfiori i 100 milioni di euro ogni anno».
L’anno scorso – secondo i dati Iri – il mercato italiano della dolcificazione (escluso il canale discount) ha fatto registrare una contrazione del 3,5%: lo zucchero, che rappresenta l’84% del settore, è calato del 3,7%, mentre il semolato base addirittura del 10,1% e i dolcificanti del 2,5%. Lo zucchero di canna, al contrario, è cresciuto dell’11,9% e i dolcificanti naturali a base di stevia del 19%, a fronte di un calo del 4,2% dei dolcificanti di sintesi.
«Anche i nostri numeri evidenziano le difficoltà dello zucchero bianco, dovute soprattutto alla continua campagna pubblicitaria negativa in termini salutistici – afferma Giovanni Ricciardi, titolare di Pomilia zuccheri – seppure con un’evidente crescita dei consumi dello zucchero di canna e dei dolcificanti, che non compensano però le mancate vendite di quello bianco. A mio parere, per bilanciare questo trend le aziende dovrebbero curare meglio le altre nicchie di mercato, quella dei dolcificanti naturali come il fruttosio, ad esempio, o lo zucchero da barbabietola biologica».
La varietà sempre più ampia dell’offerta, anche con referenze innovative e originali, sembra la strada percorsa da diverse aziende del settore, ovviamente in linea con le tendenze del momento.
«I dati confermano che i consumatori – spiega Alessio Bruschetta, direttore commerciale e marketing di Eridania Italia – si stanno sempre più orientando verso prodotti ipocalorici, salutistici e naturali. Come leader del mercato della dolcificazione in Gdo con una quota a valore del 32%, che sale al 33,7% nel solo comparto zucchero, abbiamo scelto di continuare a investire sulla diversificazione del portafoglio prodotti, innovando la nostra offerta e orientandola sempre più ad assecondare trend di consumo che premiano salute e benessere. Inoltre, nel nostro ruolo di leader, miriamo a crescere creando valore per la categoria e per i partner della distribuzione. Ciò si traduce non soltanto in innovazione di prodotto, ma anche in un progetto di category che da anni proponiamo ai partner commerciali: una soluzione che parte dalla visione futura del mercato e, lavorando su un modello econometrico esclusivo dell’azienda, definisce una soluzione di scaffale maggiormente performante in termini di vendite e di margini».
In un mercato globale la creazione del valore di un prodotto alimentare è un aspetto fondamentale per l’industria, ma non è affatto semplice quando si parla di una commodity come lo zucchero.
«Oggi interagiamo con un consumatore estremamente volubile – dichiara Stefano Dozio, direttore generale di Italia zuccheri del Gruppo Coprob – sottoposto molto spesso a ricerche “buttate là” con un trafiletto, perciò non si fida di ciò che dicono le aziende. Ci sono poi i mega trend del “senza”, del “vegano”, del “meno è meglio”, che vanno accettati e rispettati. Le cose vanno raccontate in un certo modo e possono diventare un plus quando dietro ci sono valori veri. La narrazione di una filiera integrata come quella di Coprob, ad esempio, diventa un valore e un’opportunità per la nostra marca, ma anche per chi la utilizza come ingrediente, per questo ci piace parlare non più di “made in Italy”, ma di “made of Italy”, cioè fatto di Italia. Anche ammettendo che lo zucchero sia tutto uguale, una commodity, la nostra materia prima è l’unica nel nostro Paese che può dare gli argomenti all’industria di trasformazione per la valorizzazione dei propri prodotti, perché è l’unica seminata, raccolta e lavorata in Italia e che può raccontare il valore economico e ambientale per il territorio e le storie vere di 7.000 aziende agricole emiliane e venete e di questi agricoltori che ogni giorno ci mettono la faccia».
Sempre in tema di narrazione, da molto tempo lo zucchero deve fare i conti con campagne mediatiche che ne sottolineano – a volte in maniera allarmistica – i rischi per la salute delle persone, finendo per influire sulle scelte del consumatore.
«Il comparto saccarifero è messo oggi in crisi da nuove mode che considerano più autentico il caffè amaro – afferma Anna Sara Rinaudo, responsabile marketing di Granda zuccheri – e dalla battaglia dell’informazione contro i cosiddetti quattro “veleni bianchi”. Ma consumare cibi e bevande dolci, quindi consumare zucchero, fa parte dei piccoli piaceri della vita che si possono soddisfare senza danno, se con moderazione. A volte il consumatore è bersagliato da maldicenze ed esagerazioni infondate, frutto di sensazionalismo. Ma se ciò ha portato a un calo del consumo dello zucchero “uso bocca”, è anche vero che il consumo industriale è in costante ascesa grazie all’esportazione sempre più grande del food italiano nel mondo. Per il settore B2c è importante essere attenti alla mentalità nuova con la quale il consumatore si approccia allo scaffale: le vendite ci dicono chiaramente che l’interesse nel prossimo futuro sarà rivolto a dolcificanti naturali come la stevia, ma soprattutto allo zucchero grezzo di canna, identico dal punto di vista nutrizionale ma in molti casi preferito al bianco perché percepito come più naturale».
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