Una dieta equilibrata è il migliore fattore protettivo contro i rischi di cancro evocati dall’Oms: ridurre i consumi senza particolari rinunce, dicono i nutrizionisti.
Negli ultimi anni diverse ricerche scientifiche sulla presunta pericolosità della carne, divulgate da quotidiani, riviste, telegiornali e trasmissioni televisive, hanno spesso allarmato il consumatore, disorientandolo nelle sue abitudini alimentari. Tra i numerosi studi, tuttavia, quello diffuso alla fine di ottobre del 2015 dall’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (Iarc) dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) non ha solamente turbato l’opinione pubblica, ma ha inflitto un duro colpo all’intera filiera della carne causando pesanti perdite economiche.
Dopo aver studiato per mesi oltre 800 indagini epidemiologiche sul rapporto tra una dieta a base di proteine animali e una dozzina di tipologie di cancro, infatti, il gruppo di lavoro della Iarc composto da 22 scienziati provenienti da dieci Paesi ha inserito le carni rosse tra le sostanze “probabilmente cancerogene per l’uomo” (gruppo 2A) e le carni lavorate tra quelle “cancerogene per l’uomo” (gruppo 1). Più nel dettaglio, secondo gli esperti numerosi dati dimostrano l’esistenza di un’associazione positiva tra il consumo di carni rosse – quelle che provengono dai muscoli di mammiferi da macello come manzo, vitello, cavallo, maiale, pecora, capra – e l’insorgenza del tumore al colon-retto e, in misura minore, al pancreas e alla prostata. Invece, per le carni lavorate – quelle sottoposte a un processo di trasformazione attraverso la stagionatura, la salatura, l’affumicatura o altri metodi per la conservazione e per l’arricchimento del sapore (salsicce, wurstel, prosciutto, salame) – ci sono prove sufficienti per affermare che causano il cancro colon-rettale. Lo studio, inoltre, specifica che ogni porzione di 50 grammi di carni lavorate consumata quotidianamente aumenta il rischio di questo tipo di tumore del 18%.
«Il documento della Iarc del 2015 – afferma il dott. Maurizio Tommasini, biologo nutrizionista – ha come obiettivo quello di valutare la robustezza delle prove che legano il consumo di carne a certi tipi di tumore. A questo scopo è stato esaminato un gran numero di studi sul tema. Il risultato di questa analisi indica che esistono prove sufficienti dell’effetto cancerogeno del consumo di carni lavorate, mentre vi sono prove limitate per la carne rossa.
Da sottolineare che non si indica in alcun modo l’entità del rischio, ma si valuta esclusivamente la bontà delle prove raccolte. In Italia, secondo l’Istituto superiore di sanità, il rischio di ammalarsi di cancro al colon-retto entro i 75 anni di età è del 4% per i maschi e del 5% per le femmine. Considerando il rischio dovuto al consumo di 50 grammi di carni lavorate, ogni giorno sottolineiamolo ancora, questi valori salgono quindi al 4,7% per i maschi e al 5,9% per le donne. Un aumento del rischio sicuramente non comparabile a quello legato al fumo, come alcuni hanno fatto».
In effetti, secondo le ultime stime diffuse dal Global burden of disease (Gbd) – un consorzio di più di 1.800 ricercatori di 120 Paesi – ogni anno nel mondo ci sarebbero circa 34.000 decessi per cancro direttamente attribuibili a diete ricche di carni lavorate, contro un milione di morti per tumori causati dal fumo di sigarette, 600.000 dovuti al consumo di alcol e circa 200.000 per l’inquinamento atmosferico.
«Le indicazioni che scaturiscono dai dati della Iarc – continua il dott. Tommasini – sono di fare attenzione al consumo di carni lavorate, limitandolo a 50-100 grammi per settimana, e consumare con giudizio carni rosse, scegliendo carni magre, fresche, di qualità, possibilmente di animali allevati a foraggio, mantenendo la quota complessiva al di sotto dei 300-400 grammi settimanali. E non dimentichiamo che un ruolo non marginale lo ricoprono anche altri fattori legati allo stile di vita, come l’assunzione di frutta e verdura, il controllo del peso corporeo, l’attività fisica, il consumo di alcolici e il fumo di sigaretta».
Nessun allarmismo, perciò, ma grande attenzione a ciò che mangiamo e a che tipo di vita conduciamo, perché il cancro colon-rettale – secondo i dati dell’Associazione italiana dei registri tumori (Airtum) – rappresenta la seconda neoplasia più diffusa nella popolazione italiana con oltre 52.000 nuovi casi diagnosticati nel 2016, che rappresentano il 14,3% di tutte patologie oncologiche accertate. Si calcola che nel 2013 le morti per cancro al colon-retto nel nostro Paese siano state circa 19.000, pari al 10,6% dei decessi complessivi causati da tutti i tipi di tumore.
«I risultati dello studio della Iarc hanno fatto molto scalpore nell’opinione pubblica, ma non a noi del settore medico-scientifico – spiega la dott.ssa Anna Villarini, biologa, specialista in scienza dell’alimentazione e ricercatrice all’Istituto nazionale dei tumori di Milano – poiché già nel 2007 il Fondo mondiale per la ricerca sul cancro (Wcrf) aveva elaborato delle raccomandazioni secondo le quali, per ridurre l’incidenza dei tumori, è necessario limitare fortemente il consumo di carni rosse ed evitare quelle conservate.
Si tratta di informazioni davvero importanti che non si possono nascondere alle persone, ma vanno divulgate, poiché i tumori del colon e dello stomaco sono molto rappresentati nella popolazione e la gente deve avere la percezione dei rischi causati dal consumo eccessivo di carne. È chiaro che non bisogna neanche creare allarmismi: come ci indica la ricerca, dovremmo evitare alcune tipologie di carne, ma se una volta vogliamo mangiarci una carne conservata, cioè un salume, lo possiamo tranquillamente fare, deve essere però una circostanza occasionale».
Un’eccezione, perciò, a un regime alimentare equilibrato caratterizzato soprattutto da un limitato apporto di proteine di origine animale e dal consumo di un’ampia varietà di verdure e di alimenti ricchi di fibre come i cereali integrali e i legumi.
«Quando si decide di mangiare una carne rossa o una trasformata – continua la dott.ssa Villarini – sarebbe di grande buon senso abbinare sempre cibi che contengono fibre, come i carciofi, ad esempio, o un cereale integrale. Questo perché gli alimenti ricchi di fibre costituiscono un fattore protettivo per l’insorgenza del cancro al colon, com’è stato anche messo in evidenza da uno dei più grandi studi europei realizzati negli ultimi anni chiamato Epic».
Si tratta del progetto “European prospective investigation into cancer and nutrition” (Epic), una gigantesca indagine epidemiologica svolta su una popolazione di 520.000 persone tra donne e uomini di dieci Paesi europei, che ha confermato come l’alimentazione svolga un ruolo fondamentale nella genesi non soltanto del cancro ma anche di altre malattie croniche, e come un consumo di alimenti ricchi di fibre vegetali, sia cereali sia verdura e frutta, abbia un chiaro effetto preventivo.
«Mentre il rischio delle carni trasformate è connesso principalmente ai conservanti (nitrati e nitriti) che danno origine a cancerogeni come le nitrosammine – spiega il dott. Francesco Puerari, medico specialista in scienze dell’alimentazione e neurologia – i pericoli delle carni non lavorate sono legati al tipo di cottura e alla ricchezza di eme, la molecola che trasporta il ferro. Il rischio cottura c’è quando le alte temperature provocano l’abbrustolimento della carne con la formazione di pirolisati proteici e idrocarburi policiclici aromatici, noti cancerogeni presenti anche nel fumo di sigaretta. Il rischio legato all’eme è dovuto a processi fermentativi e putrefattivi intestinali: in caso di flora batterica intestinale alterata, l’eme delle carni rosse può dare origine a cattive fermentazioni con infiammazione intestinale latente e conseguente aumento del rischio tumorale».
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