Non è semplice per un’azienda individuare quelle “best practice” in grado di trasformare gli acquisti da una necessaria transazione d’affari in un forte strumento strategico. Uno studio condotto da A.T. Kearney è riuscito a valutare le migliori pratiche utilizzate dalla funzione acquisti delle imprese e a individuare quali benefici per l’intero business aziendale potessero derivare da tale eccellenza.
Rapporti più stretti con i fornitori, migliore gestione del rischio, strategie del valore più creative e innovative, uso più efficace delle tecnologie, superiori capacità nell’attrarre e nel trattenere talenti. Sono soltanto alcune delle “best practice” di quelle aziende capaci di trasformare i loro acquisti da una necessaria transazione d’affari in un forte strumento strategico. A dirlo sono i risultati dello studio “Assessment of Excellence in Procurement” condotto nel 2008 da A.T. Kearney – primaria società internazionale di consulenza manageriale – il cui obiettivo era proprio quello di valutare le migliori pratiche utilizzate dalla funzione acquisti delle imprese e di individuare quali benefici per l’intero business aziendale potessero derivare da tale eccellenza.
L’indagine – sesta edizione di una serie iniziata nel 1992 – è stata basata sui contributi provenienti da quasi 700 dirigenti nel procurement e nella supply chain di circa 300 aziende multinazionali, di cui il 50% proveniente dall’Europa, il 33% dal Nord America, il 12% dall’Asia e il 5% dal Sud America, attive in 28 differenti settori industriali sia nel manifatturiero sia nell’industria di trasformazione che nei servizi: dall’aerospaziale all’abbigliamento, dall’automotive al farmaceutico, dalle telecomunicazioni all’alberghiero, dall’alimentare ai trasporti. I questionari compilati on-line dai manager partecipanti comprendevano oltre 600 punti di valutazione riguardo a otto dimensioni: strategie per la gestione della supply, allineamento organizzativo, gestione del sourcing e di categoria, gestione delle relazioni con i fornitori, gestione dei processi operativi, gestione delle performance, gestione della conoscenza e dell’informazione, gestione delle risorse umane. Alla fine, da questo modello dettagliato di punteggio si sono distinte una trentina di aziende definite “leader” (il 10% sul totale degli intervistati) che hanno dimostrato di aver saputo creare valore attraverso alcune best practice nell’area acquisti, oltre ad aver raggiunto un livello medio di risparmio dei costi quasi doppio rispetto a quello delle altre aziende.
«Un aspetto abbastanza sorprendente che emerge dai risultati dello studio – afferma Federico Mariscotti, membro della Practice Procurement and Analytic Solution e director di A.T. Kearney – è che le prime 30 società che hanno primeggiato nei nostri punteggi di valutazione sono distribuite in tutti i settori industriali e in tutte le aree geografiche. Se consideriamo soltanto le prime 7 o 8 società (pari al 2-3% del campione), queste da sole occupano 5 dei 6 macrosettori industriali e provengono sia dall’Asia, sia dall’Europa, sia dall’America, perciò il tema del valore nel procurement non è vincolato al settore industriale né alla geografia. Inoltre è interessante notare come all’interno delle diverse dimensioni considerate dalla ricerca ci sia eterogeneità nelle punte di eccellenza: qualche società, ad esempio, è più brillante nell’allineare la funzione procurement rispetto al corporate, altre sono più abili – soprattutto nel manifatturiero – nel migliorare la supply chain, ma un’azienda che si è dimostrata leader in una dimensione non lo è stata necessariamente nelle altre». L’area acquisti di un’impresa continua ad avere un’importanza primaria rispetto alle altre funzioni, perché da essa ci si aspetta che, oltre al risparmio dei costi, possa portare valore aggiunto all’intera organizzazione. Tale fiducia è andata aumentando negli ultimi anni, quando una molteplicità di fattori esterni ha reso ancora più complicata la sfida per aumentare le performance aziendali: la globalizzazione, la sostenibilità ambientale, la scarsità di materie prime, l’impatto delle nuove tecnologie, le fluttuazioni delle valute e dei tassi d’interesse, la disponibilità dei talenti, le questioni normative.
Dall’indagine sono emerse tre tendenze chiave nelle migliori pratiche di procurement, ciascuna delle quali è direttamente legata al raggiungimento di un vantaggio competitivo: un mandato e un coinvolgimento più ampi, strategie per la creazione del valore nuove e più dinamiche, solide capacità nella gestione delle tecnologie e delle risorse umane. Un primo dato interessante riguarda la quota delle spese esterne gestite dal procurement e il suo coinvolgimento anche nelle altre aree aziendali. Le funzioni acquisti delle imprese leader, ad esempio, dimostrano di avere il controllo o l’influenza decisiva sui due terzi delle spese in beni diretti, un valore praticamente doppio rispetto a quello delle altre aziende (65,7% contro 33,8%), mentre in termini di beni indiretti la proporzione è 73,2% per le leader e 41,5% per le altre. C’è inoltre un elevato gap nel controllo delle spese per capitale (76,5% vs 49,4%) e nei servizi (72,3% vs 52,4%). Nella metà delle aziende leader, il responsabile acquisti (Cpo) si interfaccia direttamente con il senior management, contro il 24% delle altre. Questo stretto rapporto contribuisce ad allineare le strategie di procurement con quelle generali dell’azienda (nell’83% dei casi delle leader contro il 43% delle altre), fornendo alla funzione acquisti un ruolo chiave proprio nel definire la pianificazione strategica complessiva. In particolare il 94% dei manager dell’area acquisti delle imprese leader afferma di essere invitato a discutere il business plan (contro il 56% delle altre), il 100% contribuisce attivamente alle strategie per le business unit (il resto non va oltre il 66%), l’89% si accorda con gli stakeholder sui target di spesa (le altre sono al 60%).
Chi ha dimostrato di eccellere nel procurement, inoltre, sembra avere un maggiore coinvolgimento anche in altre funzioni aziendali rispetto agli altri: nella ricerca e sviluppo (50% vs 14%), nell’ingegneria (53% vs 23%), nello sviluppo di prodotti e servizi (67% vs 19%), nei trasporti e logistica (67% vs 40%), nell’information technology (72% vs 36%) e nel manufacturing (72% vs 33%). Le moderne organizzazioni di procurement seguono in genere un modello centralizzato che delinea politiche, approcci e pratiche comuni per gli acquisti di tutta l’azienda. Per le categorie che tradizionalmente rappresentano la maggior parte della spesa (soprattutto beni diretti e spese per capitale) metà delle aziende leader adotta questa tipologia di modello, mentre in altre categorie un po’ più articolate come il marketing, la ricerca e sviluppo e i servizi legali dimostrano di avere un approccio organizzativo più flessibile per conseguire i benefici richiesti. Un’altra tendenza chiave emersa dall’indagine riguarda le strategie per la creazione del valore. Gli uffici acquisti delle aziende leader ampliano gli strumenti consolidati nel tempo come la gestione dei rapporti con i fornitori attraverso nuove tecniche: “teardown” o smontaggio di prodotto (78%), benchmark di prezzo (78%), network innovativi (60%), riduzione collaborativa dei costi (60%). Le aziende leader in pratica stanno ridefinendo i confini del sourcing puntando molto sullo sviluppo delle partenership con i fornitori, la cui collaborazione può contribuire a raggiungere maggiori benefici.
Condividere gli obiettivi, permettere l’accesso alle informazioni più importanti e utilizzare strumenti di collaborazione online – strategie adottate soltanto dal 6% delle imprese intervistate, ma dal 70% di quelle leader – consente di aumentare il contributo che i fornitori apportano in termini di innovazione di prodotto o di servizio (84%) e di riduzione del time-to-market (63%). «Quello che si è visto bene con lo studio del 2008 – spiega ancora Federico Mariscotti di A.T. Kearney – è che al procurement, oltre a metodi di sourcing e ad approcci con le funzioni aziendali, viene chiesto di sviluppare anche la capacità relazionale con i fornitori, quindi saper identificare i soggetti più adatti, saper stabilire con essi delle relazioni incentivanti in modo da poter introiettare ciò che gli stessi supplier hanno saputo raggiungere: può essere la ricerca, la velocità nel time-to-market, la capacità di scalare più rapidamente la produzione, la copertura geografica. In pratica, si tratta di fare da ponte con i fornitori, intesi non più come imprese da “bacchettare” per ridurre i costi, ma come società da coinvolgere anche selettivamente per dei benefici comuni».
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