Negli ultimi mesi gli equilibri diplomatici internazionali, già messi a dura prova dal conflitto iracheno e dalla delicata questione libanese, hanno visto lo sviluppo di un’altra crisi, i cui risvolti potrebbero essere davvero drammatici. Protagonista di tale emergenza la Corea del Nord.
Con un comunicato della propria agenzia di stampa ufficiale (KCNA), a metà dello scorso febbraio la Corea del Nord ha dichiarato di aver incrementato il suo arsenale atomico e di aver mobilitato tutte le forze militari «per autodifesa dagli Stati Uniti», aggiungendo di voler uscire dai colloqui a sei, avviati nel giugno del 2004 insieme a USA, Giappone, Russia, Cina e Corea del Sud, proprio per lo smantellamento degli stabilimenti nucleari. Il clamoroso gesto di sfida del regime di Pyongyang avveniva come reazione alle recenti esternazioni della Casa Bianca, la quale da tempo aveva incluso la nazione asiatica nella lista dei cosiddetti “Stati canaglia” o, come nella versione più aggiornata, degli “avamposti della tirannide”. Il braccio di ferro è in continua evoluzione e se la Corea del Nord pretende le scuse ufficiali di Bush e un patto scritto di non aggressione come condicio sine qua non per rientrare nel tavolo delle trattative, il segretario di Stato americano Condoleezza Rice, durante la sua visita ufficiale a Pechino alla fine dello scorso marzo, ha dichiarato che Washington sta prendendo in considerazione “opzioni alternative” per far tornare sui propri passi la Corea del Nord, escludendo comunque ufficialmente ogni intenzione di attacco militare a breve o a medio termine, ma spronando le altre forze dei negoziati e il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite affinché impongano ulteriori sanzioni al regime di Pyongyang.
È impossibile comprendere fino in fondo l’ingarbugliata situazione diplomatica in cui si trova la Corea del Nord, un Paese di quasi 23 milioni di abitanti sull’orlo della povertà e della carestia ma che nello stesso tempo rappresenta un seria minaccia nucleare per gli equilibri dell’area asiatica, se si prescinde dall’analizzare la figura e la personalità del suo indiscusso padrone, il suo capo assoluto, il suo dittatore: Kim Jong Il. Anche se la fantasiosa propaganda ufficiale di regime, per elevarlo alla condizione di semidio, individua in una capanna di tronchi d’albero sulla vetta del leggendario monte Paektu (la montagna da cui, secondo la tradizione, ha avuto origine la razza e la nazione coreana) l’evento della sua nascita, segnalata da un doppio arcobaleno e da una stella luminosa nel cielo, il “Caro Leader” (titolo con il quale è definito in patria) viene alla luce il 16 febbraio del 1942 in una campo militare dell’Armata Rossa nei pressi di Khabarovsk, nella parte più orientale degli smisurati territori dell’ex Unione Sovietica. È figlio di Kim Il Sung, il “Grande Leader”, che Stalin in persona ha incoronato presidente della Repubblica Popolare Democratica di Corea e che ha guidato la nazione dal 1948 fino alla sua morte, avvenuta nel 1994. Durante i 56 anni di “presidenza” Kim Il Sung ha instaurato una vera dittatura stalinista fondata sul culto della sua persona, sul terrore, sul ricorso a epurazioni e ai campi di lavoro forzato, isolando di fatto il Paese dal resto del mondo.
Tiziano Terzani, il grande scrittore e giornalista esperto di culture dell’Asia scomparso lo scorso anno, così descrive, nelle pagine di In Asia(Longanesi), un suo viaggio in quella terra nel 1980: «La Corea del Nord è l’incubo della società totalitaria di Orwell fatto realtà. Qui i bambini non vanno semplicemente a scuola: ci marciano; la gente non lavora: lotta per la produzione. Le biblioteche hanno migliaia e migliaia di volumi, ma sono scritti tutti dalla stessa persona, tutto è pulito, organizzato, previsto. Tutti sono disciplinati, obbedienti e felici. Questo non è semplicemente un Paese. È stato ufficialmente dichiarato “il paradiso”, e Kim Il Sung, il presidente, non è semplicemente il suo capo da più di 35 anni, è dio perché lui sa tutto quello che c’è bisogno di sapere, ha trovato le risposte alle domande che i filosofi si sono posti da secoli, e persino gli uccelli cinguettano le sue lodi. Così almeno viene detto al visitatore ed è scritto quasi ogni giorno sui giornali».
Questo regime stalinista fondato sulla filosofia del juche (una sorta di autosufficienza e di autarchia, che riconosce l’uomo come il signore di ogni cosa) che assisteva i propri figli “dalla culla alla bara”, attraverso un sistema sanitario gratuito, affitti immobiliari bassissimi, assenza di qualsiasi imposizione fiscale, ha avuto un brusco e inaspettato arresto il 9 luglio del 1994 con la morte improvvisa dell’allora ottantaduenne Kim Il Sung: la nazione aveva perso il suo padre fondatore e la sua unica guida. Il figlio Kim Jong Il ha dato al Governo una nuova struttura e, dichiarando il defunto padre “presidente perenne”, ha lasciato vacante questa carica e ha assunto i titoli di segretario generale del Partito dei Lavoratori e presidente della Commissione di Difesa Nazionale. Il nuovo timoniere della Corea del Nord, tuttavia, nonostante abbia costruito intorno a sé un culto della personalità ricalcato sull’esempio di quello paterno, con la stampa di regime che lo dipinge di continuo come un uomo fuori dal comune, non è sembrato avere la stoffa del “Grande Leader”, almeno nei primi anni di potere nei quali ha condotto una politica piuttosto isolazionista, evitando di incontrare capi di Stato o altri rappresentanti diplomatici. Inoltre, Kim Jong Il si è trovato a prendere le redini di una nazione che da una parte non poteva più contare sull’appoggio della grande madre sovietica né della Cina, due colossi che stavano abbandonando il socialismo reale per intraprendere un percorso in direzione del libero mercato, dall’altra doveva affrontare una pesante penuria alimentare causata da una serie di disastri naturali, come le drammatiche inondazioni e la prolungata siccità della fine degli anni ’90, che hanno fiaccato un sistema agricolo di proprietà statale del tutto insufficiente, portando la nazione alla carestia.
Il “Caro Leader”, invece di incrementare le importazioni di cereali e di altri beni primari per salvare la propria gente letteralmente dalla fame, ha continuato a investire oltre il 25% del prodotto interno del Paese per scopi militari, soprattutto nella ricerca nucleare bellica. Negli ultimi dieci anni, centinaia di migliaia di nordcoreani (alcuni osservatori esterni parlano addirittura di 2,5-3 milioni di persone) sono morti di malnutrizione cronica, mentre lo sviluppo fisico e mentale di oltre il 40% dei bambini di oggi è stato irreparabilmente compromesso. Il Programma Alimentare Mondiale delle Nazioni Unite, la Comunità Europea e altre organizzazioni non governative come la Caritas, hanno inviato al Paese asiatico aiuti economici, alimentari e sanitari affinché il regime di Pyongyang aprisse un dialogo sia sul versante internazionale sia su quello interno dei diritti umani.
Tuttavia, secondo Amnesty International, durante questi anni le autorità nordcoreane, che continuano a non concedere agli osservatori indipendenti il permesso di muoversi liberamente sul territorio nazionale, hanno sfruttato opportunisticamente la carestia, e la distribuzione degli aiuti umanitari sarebbe avvenuta in maniera iniqua favorendo le persone economicamente attive e allineate politicamente con i vertici del Paese. Le razioni del sistema pubblico di distribuzione del cibo – la fonte alimentare primaria per oltre il 60% della popolazione che vive nelle aree urbane – nel 2004 sarebbero diminuite a 300 grammi pro capite (nel 2003 erano di 319 grammi), sotto la soglia di sopravvivenza. Se si aggiunge che i nordcoreani, oltre al cibo, non possono contare neanche su elettricità, acqua e cure sanitarie, si può prevedere che le recente intenzione degli Stati Uniti e del Giappone di tagliare gli aiuti e, attraverso l’ONU, di imporre sanzioni economiche contro Pyongyang, qualora continui a non collaborare sulla questione del nucleare, possa convincere il “Caro Leader” a tornare sui suoi passi.
Pugno duro
Il regime di Pyongyang continua a negare ai propri cittadini i più elementari diritti umani: libertà di espressione, di movimento, di religione, di pensiero. A denunciarlo è il Rapporto 2004 di Amnesty International, secondo il quale nella Corea del Nord non è tollerata nessuna forma di opposizione politica al Partito dei Lavoratori che, oltre al potere, controlla attraverso una ferrea censura tutti gli organi di informazione del Paese e limita notevolmente l’accesso ai media internazionali. Chiunque esprima opinioni critiche o contrarie alla dirigenza rischia pene molto severe, per lui e per la sua famiglia. Anche se la Costituzione garantisce la libertà di religione, di fatto è ammesso solo il culto verso il “Caro Leader” e il suo predecessore. Risulta, infatti, che molti cristiani siano stati giustiziati o siano detenuti in campi di lavoro forzato, dove subiscono torture e vengono privati del cibo. I cittadini nordcoreani non hanno la possibilità di spostarsi liberamente fuori dai confini del Paese e, coloro che hanno provato a fuggire o a chiedere asilo politico in Cina e in Corea del Sud, soprattutto per sfuggire alla fame, una volta rimpatriati sono stati costretti a subire pesanti repressioni, lunghi interrogatori e torture. Sebbene nell’ultimo anno sia sceso il numero delle esecuzioni capitali, il regime di Pyongyang fa largo uso di fucilazione e impiccagione per punire ladri, dissidenti e disertori, sovente alla presenza di intere scolaresche. Negli ultimi tre mesi sono stati giustiziati una settantina di profughi catturati in Cina, territorio nel quale oggi si nascondono circa 30.000 nordcoreani.
Nemici fraterni
Sono passati 55 anni da quando le truppe nordcoreane, appoggiate da “volontari” cinesi, invasero i territori meridionali della Penisola provocando l’intervento degli Stati Uniti (approvato dall’ONU) e dando vita a una guerra che dopo tre anni lasciò sul campo più di due milioni di morti. Alla fine del conflitto, nel luglio del 1953 l’armistizio decretò un regime comunista di stampo stalinista al Nord e uno presidenziale-dittatoriale filoamericano al Sud, ripristinando il confine tra le due Coree lungo la linea del 38° parallelo: fu stabilita la cosiddetta “zona smilitarizzata” (DMZ), comprendente una striscia di terra larga 2 km su entrambi i lati della linea di demarcazione. Pyongyang e Seul non hanno più avuto alcun contatto fino al giugno del 2000, quando il presidente sudcoreano Kim Dae Jung (Nobel per la Pace proprio in quell’anno) incontrò Kim Jong Il, il “Caro Leader”, nella capitale del Nord per avviare colloqui distensivi tra i due Paesi fratelli e per una possibile riunificazione pacifica della Penisola. A questo storico vertice sono seguite iniziative simboliche come l’incontro di diverse famiglie del Nord e del Sud divise da mezzo secolo, anche se negli ultimi due anni alcuni “incidenti” militari hanno causato il raffreddamento delle relazioni diplomatiche.