Un calcio all’ambiente

di Fabio Massi

Giappone e Corea, fra tradizione e modernità. Radiografia dei Paesi che ospitano i Mondiali di Calcio. L’aria delle metropoli è irrespirabile, l’acqua spesso inquinata. E con i rifiuti prodotti ogni anno si potrebbe riempire 137 volte il Tokyo Dome. La pioggia acida corrode gli edifici di Seul, mentre i grandi parchi nascondono ricchezze mai valorizzate.

Quattro anni di preparazione, centinaia di miliardi di yen e di won spesi per infrastrutture e in comunicazione, 32 squadre da ogni continente del globo, 64 incontri, 20 stadi superavveniristici in altrettante città dai tanti volti, culture e tradizioni. E ancora, due vecchi nemici, il Giappone e la Corea del Sud, alleati nella costruzione di uno spettacolo mediatico che conta di coinvolgere 3 miliardi di persone. Sono i numeri della prima Coppa del Mondo di calcio che si disputa, fino al 30 giugno, in Asia: l’occasione ideale per dimostrare al mondo intero, via etere, che in Estremo Oriente esistono realtà culturalmente e tecnologicamente paragonabili a quelle dei Paesi europei o degli Stati Uniti. Nel bene e nel male: con i problemi legati alla qualità della vita e all’ambiente che fanno da contraltare a uno sviluppo intenso e tumultuoso. Ecco perciò una radiografia “verde” dei due Paesi che in questi giorni sono sotto gli occhi del mondo.

L’arcipelago senza respiro. Il Giappone è un arcipelago formato da più di 3.900 isole che si estendono su un’area di 378.000 kmq, dalla zona subartica fino a quella subtropicale. Grazie ad una rapidissima crescita economica realizzata durante gli anni ’60, le strutture economiche e sociali del Paese sono state trasformate del tutto. Oggi, quasi il 70% della popolazione nipponica è concentrata in un’area che rappresenta soltanto il 3% dell’intera superficie della nazione, la cui densità per chilometro quadrato sfiora le 5.000 persone. Da vent’anni a questa parte, l’aria nei quartieri più popolosi delle grandi città, come Tokyo, Osaka o Yokohama, è diventata pressoché irrespirabile.
Inoltre, nell’89% delle aree abitate non vengono rispettati gli standard fissati per combattere l’inquinamento acustico. I rifiuti urbani prodotti ogni giorno da ciascun Giapponese ammontano a più di 1 kg e l’intera popolazione, annualmente, ne genera circa 51 milioni di tonnellate: una quantità tale da riempire per 137 volte il Tokyo Dome, lo stadio del baseball della capitale con un volume di 1.240 metri cubi. Nell’ultimo decennio, sono stati realizzati grandi passi avanti a tutela della qualità dell’acqua attraverso la regolamentazione del trattamento delle acque industriali di scarico, mentre soltanto il 30% del totale dei bacini idrici rispetta i valori accettati per l’inquinamento organico. Nel periodo che va dal 1979 al 1985, sono stati modificati artificialmente quasi 250 km di argini dei fiumi per scopi economici e, tra i 113 maggiori corsi d’acqua della nazione, soltanto tre non sono stati interessati da lavori strutturali.

Sul territorio giapponese esistono 480 laghi e paludi con una superficie superiore a un ettaro. In sei anni, dal 1985 al 1991, il 2,2% delle sponde lacustri è stato trasformato in artificiale e lo 0,7% è stato industrializzato o urbanizzato, mentre, durante lo stesso lasso di tempo, ben 296 km di litorali sono scomparsi a causa degli interventi umani e soltanto il 55,2% dei 32.817 km di coste giapponesi è rimasto intatto. Per arginare la preoccupante situazione ambientale del Paese, nel 1994 il governo nipponico ha varato una legge per l’ecologia che traccia linee guida con prospettive fino a metà del XXI secolo. Quattro gli obiettivi a lungo termine: realizzare un sistema socioeconomico basato sul riciclo per incidere il meno possibile sull’ambiente, assicurare la piena coesistenza tra cittadini e natura, coinvolgere tutti i settori della società, promuovere attività internazionali. L’ex ministro dell’Ambiente, la signora Kawaguchi, ha inoltre creato le condizioni per ratificare a breve, nonostante le perplessità del governo, gli accordi di Kyoto: la città passata alla storia come sede del vertice sull’ambiente del 1997. Il Giappone riesce a rispettare i parametri, nonostante le ingenti emissioni di CO2, grazie ai 28 parchi nazionali che rappresentano un importante polmone verde per tutta l’area.

Polvere e siccità. In Corea del Sud aspettavano il torneo mondiale di calcio del 2002 da molto tempo, con la consapevolezza non soltanto di organizzare un ottimo affare economico, ma soprattutto di avere la grande occasione di presentare la nuova immagine di una nazione che è stata capace di uscire, prima di chiunque altro, dalla grave crisi finanziaria asiatica del 1997. E di attraversare indenne il difficile vicinato con la Corea del Nord, a lungo nell’orbita dei Paesi comunisti, che perdura da 50 anni. L’industrializzazione del Paese era cominciata negli anni ’60, ignorando del tutto le infrastrutture per la difesa ambientale con conseguenze catastrofiche, come la contaminazione di acqua pesante nel 1989 e la fuoriuscita di acido fenico nel 1991 nel fiume Nakdong. Negli ultimi anni, l’inquinamento dell’aria ha subito un sensibile calo grazie alle misure adottate dalle autorità, come la diffusione di benzine verdi o l’introduzione di veicoli a bassa emissione di gas. Ad esempio, lo scorso anno, il governo ha inaugurato una campagna che incoraggiava l’utilizzo in diverse città del Paese di autobus urbani funzionanti a gas naturali compressi, puntando, entro la fine del 2002, ad introdurre 1.500 veicoli, 61 stazioni fisse e 100 mobili per il rifornimento.

La produzione di autovetture in Corea del Sud cresce ogni anno del 10% e, nel 2000, sono stati registrati più di 12 milioni di veicoli, la cui emissione di gas è stata responsabile per l’80% dell’inquinamento atmosferico urbano. Inoltre, uno dei maggiori inconvenienti che si riscontrano nelle metropoli coreane come Seul, Pusan, Inchon e Daejeon, è la pioggia acida che assorbe biossido di carbonio dall’atmosfera, lo riconverte in acidi solforici e nitrici, corrode edifici e ponti, toglie alle piante la capacità di assorbimento dell’acqua e danneggia l’ecosistema. Un efficace rimedio è rappresentato dal cosiddetto fenomeno della sabbia gialla (hwangsa in lingua coreana) che, grazie alle sue sostanze alcaline, è in grado di neutralizzare la pioggia acida. Tuttavia, a parte questo beneficio, la sabbia gialla è una vera e propria calamità naturale.

Conosciuta anche come polvere asiatica, nasce dai deserti del Gobi e del Taklamakan nella Cina del Nord, si forma a causa dello scontro di correnti calde e fredde, sale a un’altezza di tre o quattro chilometri, per poi soffiare ad una velocità di 30 metri per secondo, limitando la visibilità e provocando danni alla salute, all’agricoltura e all’ambiente. Nonostante una media annuale delle precipitazioni superiore a quella mondiale, la Corea dispone di scarse risorse idriche, tanto che nel 1993 è stata classificata dalle Nazioni Unite come Paese carente d’acqua alla stessa stregua della Repubblica del Sud Africa e della Libia. È stato stimato che se perdurasse questa situazione, sarebbe necessario fronteggiare una mancanza di 400 milioni di tonnellate d’acqua nel 2006 e due miliardi nel 2011. Perciò il governo ha deciso di cambiare totalmente politica, costruendo nuove strutture in grado di risparmiare almeno il 13,5% dell’intera produzione di acqua entro quattro anni. Ma fra le risorse della penisola c’è anche una natura estremamente selvaggia. Fra gli altri, emerge il parco nazionale del monte Seorakasan, con i suoi 354,6 kmq di picchi sul mare e templi buddhisti. E chissà che la partita più importante per la Corea del Sud, quella dell’economia, non si possa vincere a partire dallo sfruttamento sostenibile di questi territori.

 

Peccati di gola
Arrivano dal sushi, il piatto nazionale di pesce crudo, alcuni dei problemi più seri per la tutela dell’ambiente e della salute in Giappone. Il primo, sicuramente più conosciuto, riguarda la caccia indiscriminata alle balene: il Giappone, ogni anno, contribuisce a massacrare migliaia di cetacei, di cui più di mille balenottere minori nelle gelide acque dell’Antartide e dell’Atlantico settentrionale, mettendo a repentaglio non soltanto l’esistenza della specie, ma anche il delicato equilibrio dell’intero ecosistema. 
La caccia si nasconde dietro falsi pretesti come quello di effettuare ricerche scientifiche, ma in realtà ciò che realmente interessa è che la prelibata carne di balena raggiunga i supermercati e i ristoranti nipponici. Il Giappone sta cercando di indurre la Commissione baleniera a rilasciare quote di caccia per i suoi pescatori costieri e di far rientrare le risoluzioni di condanna alle attività legate al commercio delle balene. Contando anche sui voti e sull’appoggio di altre nazioni come il Marocco al quale, nell’ultimo decennio, ha destinato ingenti aiuti economici per lo sviluppo del settore ittico.
Sempre al consumo di pesce è legata un’altra emergenza storica, senz’altro meno nota in Occidente: la cosiddetta malattia di Minamata, un grave disturbo al sistema nervoso centrale del corpo umano, i cui sintomi riguardano disfunzioni sensoriali agli arti, perdita di coordinazione, restrizione del campo visivo ed altro ancora. Le prime avvisaglie risalgono al 1956, quando in alcuni villaggi della baia di Minamata (da cui il nome dell’epidemia), nella prefettura di Kumamoto dell’isola meridionale di Kyushu, fu individuata un’insolita concentrazione di persone che soffrivano degli stessi malesseri. Un fenomeno riscontrato anche nel 1965 lungo il fiume Agano, nella prefettura di Niigata nel Giappone centrale.
Tre anni più tardi, nel 1968, il governo annunciò che la malattia di Minamata era dovuta al consumo di pesci, molluschi e crostacei contaminati da metanolo e altri alcoli alifatici saturi, scaricati senza scrupoli da impianti industriali chimici nelle acque di mari e fiumi. Oltre agli interventi di bonifica dei sedimenti infettati della baia e al monitoraggio della fauna acquatica, le autorità emanarono una legge ad hoc che obbligava le società responsabili del disastro a risarcire ognuna delle 2.952 vittime con una somma forfettaria di 24 milioni di yen (208.000 euro).

Natura di confine
A ridosso del confine che taglia a metà la penisola coreana lungo il 38° parallelo, sono state istituite una zona demilitarizzata e una a controllo civile, nelle quali, per ragioni strategiche, è stata impedita finora ogni attività economica. La prima area ha una superficie di oltre 907 kmq e si estende dalle coste del Mar Giallo fino a quelle del Mar del Giappone. L’altra invece si sviluppa per 12 km più a sud. È nata, così, in questi territori una sorta di grande riserva naturale, ricca di centinaia di specie di piante, animali selvatici, paesaggi.
E contraddizioni. La catena montuosa di Hyangnobong, ad esempio, può vantare la più ampia varietà di flora e fauna di tutta la penisola, ma, allo stesso tempo, le antilopi, le lontre e le linci coreane che vivono al suo interno sono in grave pericolo di estinzione. La pianura di Cheorwon, sugli altipiani della provincia di Gangwon, è l’habitat naturale di diverse generi di uccelli migratori e, in inverno, di una specie molto rara di gru i cui esemplari, ormai ridotti a poche migliaia di unità, rappresentano il 10% dell’intera popolazione mondiale.
La vasta area del lago montano di Duta, invece, comprende cascate e stagni formati dalle acque che scorrono dal monte Geomgang. Sugli alti dirupi nidifica l’aquila nera, un vero e proprio monumento naturale. Inoltre, piante rare come l’Utricularia japonica, il Lilium callosum e le campanelle Geomgang, rischiano di scomparire. Questo straordinario paradiso verde non rappresenta soltanto un patrimonio culturale o un laboratorio naturalistico a cielo aperto, ma è anche un’occasione di riavvicinamento tra le due nazioni coreane separate da più di mezzo secolo. La proprietà dell’area, infatti, non è mai stata definita e per proteggerne lo sviluppo serve una cooperazione congiunta tra i governi del Sud e del Nord.